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Un compositore siciliano nel repertorio molfettese delle Marce Funebri: Errico Petrella

A cura del prof. Cosmo Tridente.

Le Marce Funebri rappresentano il mistero della passione, morte e resurrezione di Cristo; infatti iniziano in tonalità minore, che per natura esprime tristezza, per concludersi in tonalità maggiore che trasmette serenità e gioia per la Resurrezione.
Capita ancora, passando in macchina in certi paesini del meridione, di trovarsi accodati, senza volerlo, a qualche corteo funebre accompagnato dalla banda musicale. Se non solo ci accorgiamo della musica, ma siamo curiosi, ci diranno che si tratta della marcia funebre “Jone” di Errico Petrella, marcia conosciuta in tutto il meridione d’Italia.
A Molfetta (come pure a Taranto) la versione di Jone che ascoltiamo durante la Settimana Santa è una riduzione del Maestro Francesco Peruzzi, mentre a Ruvo di Puglia e in molte città del sud la partitura musicale è della Casa Editrice Pucci di Portici. A differenza della prima che è più completa, quest’ultima versione è più corta e contiene i due canti principali dell’opera. Inoltre, a Bisceglie è tradizione ascoltare la marcia Jone nel suggestivo incontro della statua del Calvario con quella l’Addolorata, il mattino del Venerdì Santo.
Nato a Palermo il 10 dicembre 1813, ma vissuto prevalentemente a Napoli, Errico Petrella fu considerato il maggior operista italiano dopo Giuseppe Verdi. Scrisse 25 opere tra le quali: "I pirati spagnoli" del 1838, "Il Carnevale di Venezia" del 1850, "Elnava o L'assedio di Leida" del 1852, “Jone” del 1858, "La Contessa di Amalfi"del 1864, "I promessi sposi"del 1869, "Manfredo"del 1872, "Bianca Orsini" l'ultima sua opera scritta nel 1875.
Per avere un'idea della celebrità di Errico Petrella basterà sapere che per l'opera "Elnava" il San Carlo di Napoli e la Scala di Milano finirono in tribunale per contendersi il diritto a mettere in scena la prima rappresentazione assoluta. Malato di diabete, la morte lo colse a Genova il 7 aprile 1877. La salma, traslata a Palermo nel 1913, è tumulata in S. Domenico, nel Pantheon dei siciliani illustri.


L’opera Jone, dramma lirico in quattro atti su libretto di Giovanni Peruzzini (1815-1869), fu tratta dal romanzo “Gli ultimi giorni di Pompei” di Bulwer Lytton, ambienta a Pompei durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Peruzzini dichiara infatti di aver tratto l’idea «dalla favola d’amore su cui si appoggia principalmente il noto romanzo di Bulwer», di averne conservati i personaggi più importanti e di aver apportato riduzioni e variazioni per conferire la necessaria unità all’azione principale.
La storia racconta del ricco ateniese Glauco, che ama Jone, una giovane napoletana originaria della Grecia. Costei viene descritta come una ragazza di notevole bellezza che ricambiando l’amore a Glauco, scombina i piani di Arbace, gran sacerdote di Iside (Dea della maternità e della fertilità nella mitologia egizia), che aveva intenzione di sposarla. La presenza di Nidia, schiava tessala riscattata da Glauco, permette ad Arbace di compiere il suo piano: Nidia dà a Glauco un filtro d’amore, che gli causa un delirio a pesante sfondo sessuale (“in turpi immagini travolto ha il cor” nota Jone, mentre l’uomo va abbracciando or l’una, or l’altra delle schiave, quasi in frenesia d’amore), permettendo al sacerdote di trascinare la sconvolta Jone nella sua casa. Glauco tenta di liberare l’amata, ma è accusato di sacrilegio per aver violato la dimora di Arbace e condannato a essere sbranato dai leoni. Nidia, però, pentita del suo gesto, rivela al pretore le frodi di Arbace, salvando Glauco poco prima del supplizio. In quel momento il Vesuvio erutta e, mentre la città è in preda al panico, Jone e Glauco tentano la fuga assieme a Nidia, che però si rifiuta di seguirli, essendo innamorata di Glauco con la consapevolezza che l’uomo non sarà mai suo. Jone e Glauco scappano via mare, mentre Nidia, decidendo di morire, si mescola alla folla impazzita per l’eruzione. Nel romanzo The Last Days of Pompeii di Bulwer-Lytton i due protagonisti, prima di fuggire, si convertono al cristianesimo, parte invece assente nel libretto dell’opera.
Di quest’opera, rappresentata per la prima volta il 26 gennaio 1858 alla Scala di Milano, è rimasta famosa la marcia funebre del IV atto, che accompagna Glauco al supplizio, poi interrotto dall’eruzione del vulcano. A tale proposito, appassionate sono le parole che Glauco rivolge a Jone: “O Jone di quest’anima desio supremo e santo, non è il morir, ma il perderti che m’addolora or tanto. Ah! di me priva, o misera, qual più ti resta aita? Lunga agonia di spasimi per te sarà la vita…Ma no! Conforto siati la mia memoria, o cara: d’amor eterna un’ara per noi l’Eliso avrà”.
Il melodramma ottenne fin dal suo debutto notevole successo: ventuno repliche alla Scala, la messa in scena nello stesso 1858 al Regio Teatro S. Carlo di Napoli, la rappresentazione nei decenni successivi nei più noti teatri italiani, e numerose tournées all’estero, sia in Europa, sia in Turchia, in Egitto, in America e perfino in India e in Australia.
L’opera fu poi abbandonata per lungo tempo. Venne riesumata nientemeno al Teatro Municipale di Caracas il 30 gennaio 1891, allestita come evento speciale in occasione del centenario della fondazione dell’edificio, venendo poi registrata e distribuita in Italia dalla Bongiovanni, anche se attualmente mi risulta essere fuori catalogo presso la casa bolognese.
La marcia funebre è una delle pagine più riuscite dell’opera e presenta un momento di bella ispirazione musicale così sintetizzato da Carlo Santulli in un approfondimento sulla musica di Errico Petrella pubblicato sulla rivista “Progetto Babele”: è una musica adattissima ad una banda, mesta ovviamente. Rende molto l’idea di un dolore immenso, ma di una speranza altrettanto invincibile, come dovrebbe essere la fine di un credente; e tende quasi inconsapevolmente ad una levità, ma una levità ancora molto “terrena”, da palco della banda, non certo da Crepuscolo degli Dei”.


Pastello del pittore Drisaldi dipinto nel 1869 in occasione della prima esecuzione al Teatro della Società di Lecco dell'opera "I Promessi Sposi" del Maestro Petrella. Il quadro è collocato nei Musei Civici di Lecco.  Descrizione: Seduto in primo piano su una poltrona dal dorsale rosato è il Maestro Petrella che tiene fra le mani uno spartito. Alle sue spalle a sinistra è il Ghislanzoni librettista che ha nella sinistra il libretto dell'opera con copertina verde. A destra, su un tavolo coperto da panno verde il busto bianco del Manzoni accanto a due volumi del romanzo rilegati in giallo. Lo sfondo è grigio chiaro. Le altre tinte grigie e nere. Cornice in legno.

* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.

* Foto tratte dal web.

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