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Digiuno quaresimale e noterelle storiche

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Come ogni anno la Chiesa, durante il periodo quaresimale, invita tutti i cristiani al digiuno e astinenza per vivere più intensamente il mistero pasquale.
Oggi, lo sappiamo bene, il digiuno viene riscoperto per diverse ragioni. E’ una misura salutistica per i nostri corpi appesantiti da un’attitudine consumista divenuta sempre più evidente nei Paesi ricchi: siccome si mangia più di quanto è richiesto dal corpo, allora in nome dell’estetica e del benessere fisico ci si sottopone a diete e digiuni. Ancora, vi è chi digiuna per motivi politici: il digiuno viene allora ostentato e mostrato, reso altamente eloquente dai mass media, come strumento di pressione e di lotta.
Questi volti del digiuno non vanno biasimati, ma piuttosto considerati per riflettere e far emergere con chiarezza la specificità del digiuno cristiano. Il digiuno e l’astinenza, insieme alla preghiera, all’elemosina e alle altre opere di carità, appartengono, da sempre, alla prassi penitenziale della Chiesa: rispondono, infatti, al bisogno permanente del cristiano di conversione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di implorazione dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al Padre. Per fare questo occorre saper dire dei “no”, fare opera di resistenza e di lotta, sapersi privare di qualcosa anche se buona e vivere tutto questo non solo a livello di pensiero, ma anche con il corpo.
E a proposito di digiuno, desidero qui riportare alcune noterelle storiche, scritte dal prof. Giuseppe Poli, Ordinario di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Bari, che doverosamente ringrazio.
Nel 1537 fu invitato in loco un quaresimalista (dotto e valente oratore che con le sue avvincenti e persuasive argomentazioni, illustrava la Quaresima attraverso una non comune eloquenza) che comportò per l’Amministrazione Comunale di Molfetta una spesa di circa 10 ducati. In base ai prezzi correnti a quell’epoca, quella somma equivaleva al valore di un quarto di vigna ad oliveto-mandorleto: cioè alla migliore qualità di terra che allora poteva essere oggetto di compravendita. L’importo sostenuto per il quaresimale era comprensivo di tutto quanto fosse necessario alla sua permanenza: dalla legna per il riscaldamento al vitto per la sussistenza. Scorrendo il rendiconto delle spese, si resta colpiti dalla frugalità della dieta cui egli fu sottoposto per tutto il periodo della Quaresima. Con regolare monotonia i suoi due pasti giornalieri consistevano in una porzione di pesce azzurro (per lo più sarde), un po’ di pane (non sempre di grano) e verdura (insalata, finocchi, cime ecc.); il tutto innaffiato con una modesta quantità di vino. Questa dieta ebbe inizio il 14 febbraio, giorno delle Ceneri, e si concluse soltanto a Pasqua che quell’anno cadde il 1° aprile. Solo a quella data il nostro quaresimalista ebbe la possibilità di variare il suo pasto e gli fu offerta della carne di capretto, uova e formaggio, nonché la solita quantità di vino. Per il giorno di Pasquetta egli mangiò ancora uova e ricotta, e così nei giorni seguenti, alternando le uova alla carne, fino al giovedì successivo quando, probabilmente, ripartì da Molfetta.
Per quanto frugale, il trattamento riservato al predicatore non deve farci dimenticare che rappresentava comunque una condizione di privilegio che molti suoi contemporanei avranno certamente invidiato. Se la semplicità di quella dieta era imposta dalla religiosità comune e dallo status ecclesiastico, va tuttavia ricordato che digiuno e astinenza erano la condizione permanente in una società che si misurava quotidianamente con i problemi alimentari.
Per fortuna non a tutti toccava le medesima sorte e qualcuno si sottraeva al destino di un’alimentazione povera ed insufficiente. Così tra carte conservate negli archivi locali, il prof. Poli ha potuto leggere di un buontempone che durante la Quaresima aveva rotto la tradizionale astinenza dalla carne. L’episodio è riferito da un non meglio precisato don Adurno Scaturro il quale, “per sgravio (della sua) coscienza”, asserisce di aver appreso che un tale Telemaco Esperto era stato visto “magnarsi una pignata de turdi (tordi) nel corso della Quaresima del 1606”. Per sottolineare la volontà deliberatamente trasgressiva del protagonista, il cronista afferma che “detto Telemaco non solo havea magnato turdi ma similmente una frittata d’ova” (sic!).
Non conosciamo la conclusione di questo episodio. Ma, considerati la rigida disciplina della Chiesa a quei tempi e alcuni riferimenti contenuti nel documento, possiamo supporre che l’incauto Telemaco incorse certamente in qualche spiacevole inconveniente. Lo Scaturro ricorda, infatti, l’odissea di un suo parente che, accusato di aver praticato arti magiche, aveva dovuto recarsi inutilmente ad Andria e Bari per ottenere l’assoluzione.
Più fortunato, invece, fu l’Arciprete don Marcello de Luca il quale, in verità, non infranse i divieti della Quaresima ma si riferisce ad abundantiam in occasione del pranzo Pasquale, “Questo don Marcello – scrive nella sua cronaca un po’ pettegola il quasi coetaneo canonico Girolamo Visaggio - fu huomo d’ottima conversazione, di gran lepidezza, particolarmente al gioco; al mese di Aprile, si fece una buona tabola e avendo contratto un gran indigestione nella pasca dell’anno 1710, burlando, burlando, passò in miglior vita”.
“Così va spesso il mondo”, direbbe Alessandro Manzoni (Cap.VIII).
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* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.
* Foto tratta dal web.

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