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Incredibile ma vero: la Madonna dei Martiri tra le sculture di Giulio Cozzoli

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Negli anni Venti del secolo scorso, finita la guerra in cui aveva prestato servizio soprattutto come traduttore dal tedesco – lui che per anni era vissuto in Baviera – Giulio Cozzoli (1882-1957) torna definitivamente a Molfetta. Nel suo studio in Palazzo Cappelluti rimedita l’annoso tema del rifacimento delle statue processionali per la settimana santa, e naturalmente accoglie nuove committenze tra cui quella relativa ad una riproduzione della statua della Madonna dei Martiri da inviare alla comunità molfettese di Hoboken, città situata sulle rive del fiume Hudson, di fronte alla grande New York con i suggestivi grattacieli di Manhattan.
L’artista è evidentemente compresso nelle sue potenzialità creative dai confini imposti dalla committenza: egli deve riproporre in un materiale più leggero e in dimensioni forse appena inferiori rispetto all’originale, la stessa identica iconografia della statua del Verzella, che possa rammentare ai molfettesi d’America la devozione e gli affetti della patria lontana. Un noto statista italiano, in un lontano periodo, affermava che dovunque c’era un italiano c’era il tricolore. Ebbene, se l’italiano è molfettese col tricolore c’è pure la Madonna dei Martiri, “nostra compagna di viaggio e testimone silenziosa delle nostre solitudini”, come ebbe a dire l’indimenticabile don Tonino Bello.
Il primo mare che la Madonna dei Martiri prese e attraversò fu l’Atlantico navigando con tutti, come tutti, con gli stessi disagi e le stesse nostalgie. La statua giunse in America il 4 ottobre 1928 e da allora è venerata presso la chiesa di S.Anna (St.Anna church) in Jefferson Street. Prima di “emigrare” fu benedetta dal Vescovo Pasquale Gioia, alla presenza del Sindaco pro-tempore Stefano De Dato, e rimase esposta per alcuni giorni nella sede dell’Associazione Casa del Pescatore, fondata nel 1916 ed ubicata in via Giuseppe Saverio Poli n.1.
Perché proprio in quella sede? Per due ordini di motivi: in primis perché, com’è noto, la Madonna dei Martiri è protettrice della città di Molfetta e quindi di tutti i molfettesi (Patrona Melphictensium) residenti e sparsi per il mondo e in particolare dei marinai, i quali quando salpano con le loro barche (“la ciurma torna alla marina”, come dice un vecchio ritornello napoletano) e quando ritornano al porto, il loro primo saluto è rivolto a Colei che veglia su di loro nella dura fatica del mare (“Tu nos tuere miseros, / Et omni a malo vindica”, leggiamo nel Responsorio in latino, approvato da Mons. Pasquale Picone il 3 febbraio 1914). In secondo luogo, perché presso quella sede si fa tuttora la novena ad una piccola statua della Madonna, ivi custodita, che viene festeggiata all’ottava del rientro del simulacro in Basilica con il lancio di bombe carta, la bassa musica, la recita di preghiere davanti alla statuetta della Madonna e gli immancabili fuochi pirotecnici.
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Tornando alla statua plasmata dal Cozzoli, riporto un’attenta e precisa analisi critica fatta dalla Prof.ssa Antonia Abbattista Finocchiaro (che doverosamente ringrazio), molfettese residente a Bergamo, critico d’arte e autrice di alcune pubblicazioni a carattere storico artistico.
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«Appare infatti evidente – scrive la Prof.ssa Abbattista Finocchiaro - come Cozzoli si sia attenuto fedelmente all’impianto strutturale dell’opera ottocentesca, copiando letteralmente l’enchement leggero di Maria, la tipica torsione “a girandola” del busto del Bambino, che come da antica iconografia aderisce al busto della madre ma si rivolge ai fedeli, riproducendo la posa simmetrica dei due angeli reggi cortina. Non poteva l’autore – e non doveva di fatto – uscire dal seminato creato con il modello del Verzella: dovevano comparire nella sua copia il morbido accostamento della testa di Maria a quella di suo figlio, il gesto affettuoso del piccolo che allunga una mano verso il velo della madre, il libero aprirsi nello spazio del velo azzurro della Vergine, che scende dalla sua spalla destra e si apre a mostrare le forme piene e materne della figura, prima di risalire pudicamente verso la mano sinistra e richiudersi seppure solo parzialmente intorno all’abito sottostante. Questi elementi sono entrati negli occhi dei devoti molfettesi: se mancassero, nessuno riandrebbe con quel simulacro ai ricordi lasciati oltreoceano.
Questo genere di copie non parte dunque con promesse di particolare efficacia sotto il profilo comunicativo: comunque di copia si tratta. D’altra parte Cozzoli si trova ad affrontare due oggettivi problemi – chiamiamoli così - “tecnici”: da una parte la trasposizione iconografica da una materia morbidamente trattata come il legno della tradizione napoletana, in un’altra materia soggetta a durezze linguistiche come la cartapesta, dall’altra la manifesta lontananza della sua cultura artistica, ormai del tutto moderna, alimentata da esperienze romane e internazionali, rispetto alle dolcezze ancora tardo settecentesche di Verzella.
Non poteva, l’artista che aveva affiancato il grande Cifariello nel suo itinerario verso il naturalismo maturo, riprodurre il percorso dolcemente divagante del velo azzurro del Verzella, entrare nelle pause compositive del cuore dell’immagine ottocentesca, tra la vita dell’abito di Maria, l’incavo del suo braccio destro e le pacioccose gambette del Bambino, non poteva cogliere e riprodurre – anche per quanto andava accadendo rispetto alle statue processionali molfettesi - la segreta morbidezza dell’ancheggiare nella Madonna del Verzella, la sua sincera e meridionale femminilità.
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Necessariamente, nel confronto, l’opera di Giulio Cozzoli risulta piuttosto spenta sia nella comunicatività gestuale – il braccio destro di Maria e il suo velo, il piedino di Gesù e il suo braccino sinistro formano un unico groviglio poco leggibile sotto il profilo tecnico – che nel colloquio con lo spazio circostante. I due protagonisti – madre e figlio – hanno perduto quell’aria dolce e assorta che è propria della statua devozionale e assumono una rigidità distaccata, i due angioletti non dispongono più di quelle minuscole ma significative differenze nella posa che ne facevano comunque due figure animate per diventare due figurine simmetriche. Persino le nuvolette su cui posa la Vergine hanno perduto quella configurazione “a panna montata” che davvero ricorda certe nuvole bianche nei nostri cieli azzurri, per diventare una allusione quasi metafisica. Non sappiamo se sia da attribuirsi allo stesso Cozzoli ( ma ne abbiamo il fondato sospetto) la variazione del colore dell’abito di Maria, dal rosa originario – che nel Verzella ammorbidisce ed esalta l’azzurro intenso del velo e sottolinea la sinuosità del corpo – ad un giallo sicuramente più luminoso ma decisamente simbolico.
Scopriamo un Cozzoli meno bravo di quanto ci si aspetti? Assolutamente no: l’artista – comunque grande e sicuramente meritevole di una rivisitazione scientifica della sua produzione - si è perfettamente adeguato alle richieste della committenza, e la Madonna “americana” rilancia nella memoria di ciascuno quella molfettese, trattenendone il carico emozionale e i fervori religiosi che per fortuna non badano a differenze tecnico stilistiche o storico artistiche, e conferiscono lo stesso valore dell’originale anche ai santini di terracotta che conserviamo nelle nostre case».

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Concludo con alcuni versi bellissimi del concittadino Dino Claudio: “… Dall’esilio ti canto: vedo alta la luna, / il campanile capovolto nell’acqua, / le lampare, i pescherecci amati, / e non mi carda l’anima la cara / sponda perduta, ma il differito / incontro con te, umile Ancella, Madre / che effondi nei rintocchi il tuo richiamo / a dirmi che mi attendi, e nei crepuscoli / che cedono alle tenebre / accendi la tua stella”.
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* Testo e foto a cura del prof. Cosmo Tridente.

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