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Tra cronaca e leggenda: una beffa memorabile

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Molfetta ha sempre avuto buoni rapporti con le città confinanti anche se, in passato, non sono mancati episodi di acceso campanilismo, come quello che sto per raccontare, in chiave umoristica, mettendo a dura prova i rapporti di buon vicinato.
La nostra sede vescovile, chiamata anche “episcopio”, ossia l’immobile destinato all’esercizio del ministero proprio del Vescovo diocesano (canoni 381-402 del Codice di diritto canonico), pur se gli studiosi non sono tutti d’accordo sull’anno della sua istituzione, la si può storicamente collocare nella seconda metà del dodicesimo secolo come suffraganea di quella di Bari. Prima di tale periodo pare che essa fosse ubicata a Giovinazzo, città piccola sia per superficie sia per numero di abitanti, ragione per la quale gli abitanti di Molfetta chiesero ed ottennero il trasferimento della sede episcopale da Giovinazzo a Molfetta.
Tale decisione non andò a genio ai giovinazzesi che la contestavano in tutti modi al punto che qualunque molfettese si avvicinasse alla loro città, doveva sopportare insulti di vario genere e qualche volta subire bastonate. Era un reciproco scambio di colorite invettive tra le due città, distanti l’una da l’altra di appena sei chilometri: Mlefettéiese mequéte, né v’avéste c’avàiete arrebbéte re d’ossere de Sén Gherrare da Medugne, mó veléiete arrebbé énnéue Ménzegnòere. Cuss’è u munne de fréc’à fréieche, cule rutte ca nènzìt’élte (Molfettesi bacati, non vi basta che avete rubato le ossa di San Corrado da Modugno, ora volete rubare a noi Monsignore. Questo è il mondo dell’inganno, culi rotti che non siete altro).
Replica: Scevenézzaiese fràgete, vàue tenéiete solténde né chiàzze é avàste, Ménzegnòere è u nùeste. Sciàiete a pescià sòep’ o altare pe lésse nemenéte. E pó stàiete a parlà pròpeie vàue c’avàiete chepeiàte da la Médonné nòste. (Giovinazzesi fradici, voi avete soltanto una piazza e basta, Monsignore è nostro. Andate a orinare sull’altare per essere nominati da tutti. E poi state parlando proprio voi che avete copiato dalla nostra Madonna).
Infatti vuole la leggenda che nel lontano 1187 un crociato di nome Gereteo donò alla chiesetta del casale di Corsignano una sacra immagine della Madonna che, tornando dall’Oriente, aveva preso da un tempio di Edessa. La leggenda ha una forte somiglianza con quella che la tradizione popolare molfettese attribuisce all’icona della Madonna dei Martiri, nostra compatrona.
Non essendo riusciti a revocare il trasferimento della sede episcopale, i giovinazzesi tentarono di convincere i molfettesi ad avere il Vescovo almeno nella loro festa patronale: màgghie nu màle accòrde ca né caus’a lònghe (meglio un cattivo accordo che una causa lunga), dicevano.
I molfettesi accettarono la proposta, ma, temendo un loro colpo di mano progettarono un escamotage che si rivelò una grandiosa beffa. Sulla groppa di un asino, bardato a festa, anziché far salire il Vescovo in persona, misero un cartone che lo raffigurava perfettamente e lasciarono il quadrupede alle porte di Giovinazzo.
La città era in festa e il Sindaco, con la banda musicale al seguito, andò incontro all’asino per porgere al Vescovo il saluto della città e di tutto il popolo giovinazzese che osannava: Viva il Vescovo, viva il Sindaco, viva Maria di Corsignano. Ma, quando gli tese le mano, notò che Monsignore rimaneva fermo com’a nu toeme (come Toma). Qui si alludeva alla famosa maschera del carnevale molfettese.
L’offesa fu così grande che tutti insieme, armati di bastone, si avviarono verso Molfetta per dare una lezione ai beffardi vicini di casa: Mlefettéiese crennéute – gridavano – avita scettà u sànghe da nghànne pe chère c’avìte fétte. Méggie pe vvéue, disgrazziéte, cà né v’acchìmme pe nnénze ce se nàune ve retréite spaccate de chépe a re casere voste. Figghie de putténe, u Ménzegnòere de cartòene u avìt’è mètte n’ghéul’ o ciucce (Molfettesi cornuti - gridavano – dovete buttare il sangue dalla gola per quello che avete fatto. Meglio per voi, disgraziati, che non vi troviamo davanti ai piedi, se no vi ritirare rotti di testa alle vostre case. Figli di puttana, Monsignore di cartone lo dovete mettere al culo dell’asino).
Tra i molfettesi ci fu un parapiglia e un fuggi fuggi generale: alcuni si barricarono in casa per la paura, altri chiesero protezione al patrono San Corrado il quale non poteva intervenire per la mancanza di braccia, altri alla Madonna dei Martiri, la quale aveva un conto in sospeso con i giovinazzesi, altri ancora al Vescovo (in persona, questa volta), il quale non si azzardava ad uscire dalla sede episcopale per salvaguardare la propria incolumità. Chi fosse il Vescovo, oggetto della contesa, non è dato sapere. Potremmo solo azzardare l’ipotesi che si trattasse di Giovanni I che, secondo lo storico Giuseppe Maria Giovene (Kalendaria Vetera, pag.192), fu il primo Vescovo a Molfetta. La situazione era incandescente: Addò stéiete, mlefettéiese fréchénghéule, avit’à paghé chère c’avìte fétte! (Dove siete, molfettesi imbroglioni, dovete pagare quello che avete fatto!), ripetevano con toni minacciosi. Grazie alla probabile mediazione della Madonna di Corsignano, i bellicosi giovinazzesi tornarono alle proprie case, ma i molfettesi si guardarono bene dal mettere piede o di avvicinarsi a Giovinazzo.
E’ proprio il caso di ripetere saggiamente con gli antichi: Nén’avè crédde né a frestìer’ é né a mrecchénde (non prestare mai fede né a forestieri e neppure a mercanti).
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* Testo e foto a cura del prof. Cosmo Tridente.

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