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"Vexilla regis prodeunt" - Profilo storico e nota di folclore

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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“Vexilla regis prodeunt” (“Avanza il vessillo del re”) è l’inno ufficiale delle suggestive processioni pre-pasquali che i molfettesi rivivono ogni anno con intensa fede religiosa: processione della Croce (alla mezzanotte dell’ultimo giorno di Carnevale); processione dell’Addolorata (il venerdì che precede la domenica delle palme); processione dei Misteri (il venerdì santo); processione della Pietà (il sabato santo).
Come ha scritto il prof. Dionisio Altamura (“Vexilla Regis Prodeunt”, Mezzina, Molfetta 1983) il sostantivo Vexilla è un plurale poetico di Vexilium-i, che viene tradotto al singolare con il significato di vessillo, bandiera, ossia la Croce, Regis è il genitivo di Rex (Re), cioè di Cristo, il predicato prodeunt (vanno avanti) si riferisce al fatto che la Croce è portata in processione e la precede.
L’inno si compone di sette quartine in lingua latina con le quali si esalta il mistero della Croce (“Fulget Crucis mysterium”) e si conclude con la richiesta alla SS. Trinità, dopo aver levato il canto di lode, di elargire il premio della vittoria della Croce (“Quibus Crucis victoriam / largiris adde praemium”) cioè la vita eterna a tutti coloro che sanno trarre buon frutto dalla Passione di Cristo.
Autore dell’inno è Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato (latino:Venantius Honorius Clementianus Fortunatus). Nato verso il 530 a Valdobbiadene (Treviso) di cui è patrono, studiò grammatica e retorica nel pressi di Aquileia e diritto a Ravenna. Quando era studente fu colpito da una grave malattia agli occhi, che lo rese quasi cieco e dalla quale però guarì dopo aver deterso i suoi occhi con l’olio della lampada che bruciava sull’altare di San Martino nella Basilica di Giovanni e Paolo a Ravenna. Per rendere omaggio a questo Santo, Venanzio intraprese un lungo pellegrinaggio verso Tours. A Poitiers conobbe Radegonda, figlia di Berterio, re di Turingia, con la quale strinse una profonda amicizia. Radegonda, sposa di Clotario I, si ritirò alla vita monastica dopo l’assassinio di suo fratello (Clotacario) ad opera di Clotario stesso. Costei fondò un monastero che prese il nome di Santa Croce in seguito ad una reliquia della Santa Croce donata a Radegonda da Giustiniano II, imperatore d’Oriente. Fu in quella occasione che Fortunato scrisse il “Vexilla Regis Prodeunt” e il “Pange lingua gloriosi”, opere che sono riconosciute dalla Chiesa come testi liturgici. Alla morte di Radegonda (587) fu ordinato sacerdote e assunse la direzione spirituale del convento. Nel 597 fu nominato Vescovo. In tutta la sua vita scrisse inni, saggi, elegie funebri, omelie e poesie dedicate alla vita dei Santi, tra cui S. Martino e Santa Radegonda. La morte lo colse il 14 dicembre del 607.
Va detto per inciso che subito dopo la morte di Gesù Cristo, della Croce su cui era stato crocifisso non si seppe nulla per tre secoli. Il fatto è spiegabile: l'orrore che aveva lasciato negli animi la tragedia della Croce; le leggi mosaiche, le quali imponevano che sparisse ogni traccia di supplizio prima della Pasqua; la persecuzione di cui furono fatti oggetto in Gerusalemme gli apostoli e i discepoli del Maestro; la distruzione di Gerusalemme sotto l'imperatore Vespasiano, per opera di Tito suo figlio, sviarono ogni ricerca della Croce.
Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino (306-337), fu la donna, scelta da Dio, per attuare i divini disegni. In una visione, le mostrò il luogo del Calvario dove si trovava la Croce di Gesù. Jacopo da Varagine, nella sua “Legenda aurea” afferma che, dopo aver ritrovato le tre croci, Elena fece mettere un cadavere sulla prima Croce e non accadde nulla, così per la seconda Croce, ma sopra la terza, la salma riprese vita, perciò si conobbe quale fosse la Croce di Cristo, la quale è variamente raffigurata persino nelle bandiere nazionali di sette Paesi membri dell’Unione Europea (Regno Unito, Danimarca, Svezia, Finlandia, Slovacchia, Grecia e Malta).
E a proposito di questo sacro inno, mi sovvien (parola del Carducci) un aneddoto popolare molfettese. Un confratello dal “sacco rosso” di nome Felice (Felìsce), nelle grandi ricorrenze della cristianità, come Pasqua, preferiva consumare a tavola carne di tacchino perché – diceva – “ind’ò vénde u vìcce nén fàsce crapìcce” (nella pancia il tacchino non fa capricci, per la sua elevata digeribilità dovuta alla bassa presenza di grassi e di tessuto connettivo). Poco gl’importava dell’antica tradizione molfettese di mangiare, nel pranzo di Pasqua, u benedìtte cu vredìtte (agnello e brodetto con le uova battute). Ebbene un venerdì santo, mentre la processione di Cristo Morto attraversava, nel buio della notte, via Amente (centro storico), Felice vide, pe chembenézeiòene (per combinazione), un tacchino che era appollaiato in una gabbia davanti ad una abitazione a piano terra e preso da un irrefrenabile istinto famelico (dato che in passato la religiosità comune imponeva una dieta abbastanza frugale per il tempo di Quaresima), se ne impossessò, nascondendolo al disotto del camice color rosso-tabacco, tipico dell’Arciconfraternita di S. Stefano. Si sarebbe rifatto “ad abundantiam” in occasione del pranzo pasquale, pur se forte era il suo desiderio di rompere la tradizionale astinenza dalle carni e seguire l’esempio di un tale buontempone che era stato visto “magnarsi una pignata de turdi (tordi) nel corso della Quaresima del 1606”.
Come e in che modo abbia potuto nascondere il tacchino, non è dato sapere; lasciamo che se ne occupi la fantasia popolare. Sta di fatto che, probabilmente per la scomoda posizione, non riuscì a occultare perfettamente il pennuto. Infatti una zampa fuoriusciva dalla parte sottostante del camice (va detto che il tacchino è un gallinaceo con zampe lunghe ed ali e coda corte). Un amico del confratello, che era in fila dietro di lui, avendo notato la scena del sotterfugio, volle avvisarlo e, salmodiando con i confratelli di S.Stefano che in quel momento elevavano il canto del Vexilla a Cristo Morto, disse cantando:
Felìsce abbasce u chémese / ca se vèiete la cémbe du vìcce” (Felice abbassa il camice, che si vede la zampa del tacchino). Felice capì subito l’antifona e s’affrettò a rassicurare il gentile amico, rispondendo: “Pure é bbùene ca me si avvesàte / ce se nòene avédda lésse arrestate (meno male che mi ha avvisato, altrimenti dovevo essere arrestato) L’arresto, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto proprio in quella via il cui toponimo (Amente) prende il nome dalla parola “ammenda”, nel significato di riparazione di reati. Infatti anticamente qui i malfattori subivano la pena della fustigazione come “ammenda” per le loro malefatte.
Ma l’apparente imperturbabilità di Felice non durò a lungo. Infatti, vuoi per il peso (du vìcce) che lo strizzava nel fondoschiena, vuoi per il terrore che qualcuno si accorgesse del misfatto, fatto sta che le sue gambe cominciarono a fare “Giacomo Giacomo”, ad avere cioè la “tremarella”, come cantava Edoardo Vianello negli anni ‘60.
Ragion per cui (sempre intonando con le note del Vexilla), “arrevàte sott’alla pórte / acchemenzàie a fa u fórte” (arrivato sotto la porta, cominciò a ostentare forza). Sott’alla porte è l’incrocio tra le vie Annunziata, tenente Ragno, Domenico Picca e Sergio Pansini, dove si ergeva una porta di accesso alla seconda cinta urbana. In questo sito, nelle prime ore del mattino, si ritrovavano contadini e braccianti agricoli per programmare le loro attività lavorative giornaliere nell’agro molfettese).
Arrevàte ‘nnénz’o Pezzelechéne / acchemenzàie a tremelà la setténe” (Arrivato nelle vicinanze di pozzo dei cani, cominciò a tremare la sottana. Pezzelechéne è la confluenza tra le vie Crocifisso, Giovene e Madonna dei Martiri, dove anticamente in una voragine carsica (capevìende) si gettavano i cani idrofobi).
Arrevàte ‘nnénz’o mecìedde / acchemenzàie a tremelà u acìdde” (Arrivato nelle vicinanze del mattatoio, cominciò a tremare l’uccello). Il mattatoio comunale del 1875, ubicato in via Madonna dei Martiri, oggi è riadattato a mercato rionale).
Non conosciamo la conclusione di questo episodio ma, possiamo supporre che l’incauto Felìsce prima o poi abbandonasse la processione di Cristo Morto e se ne tornasse a casa, onde evitare che u vìcce, stremato dalla sua forzata immobilità, potesse vendicarsi con un abominevole e maleodorante “lascito” corporale. Tutto è bene quel che finisce bene, direbbe il saggio
La mescolanza di sacro e profano in questo scritto non dev’essere ritenuta dissacratoria o menomante la sacralità dell’inno, su cui è impostato l’aneddoto, reale o fantastico che sia, né bisogna ritenere irriguardoso l’aneddoto stesso, conservato in una lunga tradizione orale.
Si sa che il popolo vive il sacro intensamente nel suo svolgersi, ma fuori della funzione sacra s’abbandona ad una sorta di rivivimento ironico del sacro stesso.
Lo testimoniano tutti gli aneddoti su san Pietro, per esempio quello relativo al reperimento del prosciutto (ci a’ppèrse…u presutte) o quello fondato sul miracolo della trasformazione dei sassi in pane, quando Pietro ne prendeva uno piccolo, e dell’adattamento dei sassi a sgabelli, quando Pietro ne prese uno grosso.
Di capacità ironica del popolo abbiamo un’infinità d’esempi. Anche il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli in un suo sonetto suscita il riso con il fraintendimento popolano della frase latina “secundum magnam misericordiam tuam”, in cui il “magnam” è percepito come una voce del verbo “magnà” (mangiare).
L’aneddoto del “vìcce” non è lesivo neanche del nome Felice, perchè a Molfetta molti nomi sono entrati in filastrocche rimaste, senza che si abbia ricordo degli episodi da cui derivano, e pervenute alla nostra conoscenza di ragazzini d’oltre mezzo secolo fa.
Per esempio Giuseppe (O Geséppe / émmìne la ròete / e sùene u cambenìedde e fa abballà le precenìedde); Gaetano (Caiténe Caiténe la paténe ngul’o chéne); Antonio (Éndoneie Éndoneie vu dó òeve: aun’è mémmet’è u alt’a sorete); Lèucio (Sénde Liùzze: nu scarpe e nu spreduzze); Vittoria (Vettoreie vè cachénn’ e vè allecchénne); Giambattista (Gémméttiste nziste nziste fasce le figghie ind’o chénistre); Corrado (Corradì Corradì fa pipì mméz’a la vì); Nicola (Necóele fav’è’ccóele mitte fùeche a la pestòele); Chiara (Chiarìne chiénd’ àgghie e pitrisìne); Donato (Alla case de mèste Denéte / ci éere zùepp’e ci stenéte); Onofrio (Com’è bédde Nofarudde fasce u pìdete e nén disce nudde); Paolo (Paulùcce Paulùcce dalle a vèieve a chèr’a ciucce); Leonardo (Lénérdùcce Lénérdùcce, calzengìcchie e tarallùcce); Anna (E sciùmm’e sciùmm’e sciùmme / cummé Iénne tenéve u sciùmme / e cì nge u avà scazzà / chiéne chiéne cumbà Cherrà) ed altri che non trascrivo per non annoiare il lettore.
Non per quelle filastrocche i molfettesi hanno avuto timore di dare ai propri figli i nomi “cantati” con ironia: Giuseppe, Gaetano, Antonio, Lèucio, Vittoria, Giambattista, Corrado, Nicola, Chiara, Donato, Onofrio, Paolo, Leonardo, Anna, e molti altri ancora. “La parola fa l’uomo libero, parlare è un atto di libertà”, direbbe Ludwig Feuerbach (L’essenza del Cristianesimo).

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Vexilla Regis Prodeunt
(Il testo originale)
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1. Vexilla Regis prodeunt: Fulget Crucis mysterium,
Qua vita mortem pertulit, Et morte vitam protulit.
2. Quae vulnerata lanceae Mucrone diro, criminum
Ut nos lavaret sordibus, Manavit und(a) et sanguine.
3. Impleta sunt quae concinit David fideli carmine,
Dicendo nationibus: Regnavit a ligno Deus.
4. Arbor decor(a) et fulgida, Ornata Regis purpura,
Electa digno stipite Tam sancta membra tangere.
5. Beata, cuius brachiis Pret(i)um pependit saeculi:
Statera facta corporis, Tulitque praedam tartari.
6. O CRUX AVE, SPES UNICA, Hoc Passionis tempore
Piis adauge gratiam, Reisque dele crimina.
7. Te, fons salutis Trinitas, Collaudet omnis spiritus:
Quibus Crucis victoriam Largiris, adde praemium. Amen.
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* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.

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