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La Pietà

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Il tema della “Pietà”, ossia la Vergine Madre che accoglie in grembo e contempla il corpo morto del Figlio, ha origini lontane. E’ a questo tipo di raffigurazione che ha fatto ricorso Michelangelo Buonarroti (1475-1564) quando, non ancora venticinquenne, ha portato a compimento una delle sue opere più famose: la Pietà conservata in San Pietro, scolpita nel 1500 su commissione del Cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas, all’epoca ambasciatore di Francia presso la Santa Sede.
La dolcezza della Madre rende amabile il suo dolore, il corpo del Figlio è affranto dai tormenti della passione e dallo strazio del patibolo. Si racconta che uno dei visitatori lombardi recatisi a vedere questo lavoro della Pietà, domandò chi ne era l’autore. Un altro rispose : « è il nostro Gobbo di Milano » (Cristoforo Solari, artista milanese). Michelangelo, che per caso era presente, si sdegnò di questa attribuzione e «una notte vi si serrò dentro con un lumicino, e avendo portato gli scalpelli - così riferisce il Vasari - vi intagliò il suo nome ».
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La Pietà, venerata nella chiesa del Purgatorio, è l’ultima statua che chiude la processione del sabato santo e la tradizione vuole che all’uscita la banda suoni la marcia “Dolor” del Maestro Saverio Calò. Rigorosamente soggetta al rispetto dell’orario, in vista della funzione della Resurrezione, la processione ha termine entro le ore 22 ed è consuetudine che all’ultimo tratto la Pietà venga portata a spalla dai Sacerdoti.
Nel suo progetto di rifacimento delle statue del sabato santo, Giulio Cozzoli non pensò mai di rifare la Madonna nel gruppo della Pietà, cioè la testa, le mai e i piedi, trattandosi di una figura scheletrica ricoperta da una veste. Egli era il primo a rendersi conto di quanto quella statua fosse eccezionale, di come quel volto fosse irripetibile, un’autentica opera d’arte da salvaguardare e trasmettere ai posteri. Pensò invece di plasmare una nuova immagine di Cristo Morto da posare sulle ginocchia della Madonna, anche per ridurre il divario estetico tra la statua della Madre e quella del Figlio (quest’ultima di mediocre fattura).
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Ebbene, subito dopo la Pasqua del 1907, l’Amministrazione della Morte diede incarico ufficiale a Cozzoli di plasmare una nuova statua di Cristo Morto per il gruppo della Pietà. Il giovane autore s’impegnò al massimo delle sue capacità e per questo si portò più volte al Cimitero per studiare i corpi inanimati, nell’abbandono della morte. Dagli schizzi lì fatti, successivamente elaborati e tradotti nel bozzetto definitivo, venne fuori la suggestiva immagine di Cristo Morto che venne portata in processione nella Pasqua del 1908.
Nella figura plasmata da Cozzoli il Cristo, riverso sulle ginocchia della Madre, ha l’atteggiamento immobile di un cadavere, non però la fissità statica, poiché si articola in tre pose riunite: a sinistra il capo arrovesciato, al centro il corpo dall’omero alle ginocchia, a destra le gambe pendenti. Un braccio è disteso sul grembo della Madonna, che ne stringe la mano; l’altro, ricadente all’ingiù, sfiora con l’indice il sandalo materno.

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Le lesioni inferte alla fronte dalla corona di spine, i lividi grumosi delle battiture, le escoriazioni causate alle ginocchia dalle cadute, i fori dei chiodi alle mani e nei piedi, la piaga aperta e sanguinante nel costato dal colpo di lancia, conferiscono alla statua verosimiglianza e compiutezza nei patimenti subiti da Cristo.
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Anche il volto della Madonna, rigato di lacrime, subì un lieve ritocco. Lo scultore volle donargli una più intensa espressione di dolore: un viso di veemente splendore che rappresenta la Vergine al sommo dello strazio, impietrita, come disanimata dalla spada di dolore che la trafigge.
Inoltre, Cozzoli apportò sostanziali modifiche all’intero gruppo. In origine la statua della Madonna stava seduta su una cassa di legno ai piedi della Croce. Il tutto, poi, veniva avvolto nell’ampio manto nero della Vergine, dando l’impressione che la Croce fuoriuscisse dal dorso della Madonna. Il Cozzoli corresse il difetto creando un ampio masso di cartapesta, distante dalla Croce recante la sindone e un reliquiario, su cui far sedere la Madonna.
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Recentemente (ottobre 2009) il vecchio Cristo Morto settecentesco, deteriorato dal tempo, è tornato al suo antico splendore, dopo un restauro operato dai restauratori andriesi Valerio Iaccarino e Giuseppe Zingaro (gli stessi che hanno restaurato le altre statue), su iniziativa del priore in carica, dott. Franco Stanzione.
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A tale proposito mi sia consentito esprimere, come confratello, una mia considerazione personale. Specialmente in questi ultimi tempi, l’Amministrazione uscente, in carica da sei anni, è stata oggetto di una ingiusta e ingiustificata campagna denigratoria da parte di un gruppo di facinorosi confratelli che a volte hanno superato il limite di una civile dialettica. L’amico Franco Stanzione non è un fanatico, non è un presuntuoso, non è un dittatore come potrebbe sembrare agli occhi miopi di alcuni confratelli. Egli è semplicemente un profondo appassionato dei riti e delle tradizioni sella settimana santa che ha il merito di aver operato e agito, durante il suo mandato, unicamente per il bene del pio Sodalizio, lasciando in eredità la realizzazione di una serie di iniziative che nessun’altra Amministrazione può vantare. Pertanto, come diceva il caro Totò, cerchiamo di essere uomini e non caporali, ringraziando, sine glosse, l’amico Stanzione per quello che ha fatto e che rimarrà nella storia dell’Arciconfraternita. Tutto il resto non appartiene alla stessa ma a una dialettica sterile e disfattista che non può minimamente intaccare un venerabile pio Sodalizio qual è quello dell’Arciconfraternita della Morte.
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* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.
* Foto provenienti dall' archivio privato del dott. Francesco Stanzione.

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