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Un mestiere ambulante nel repertorio del Maestro Vincenzo Valente

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Fino agli anni ’50, le sedie che facevano parte dell’arredamento della casa di molte famiglie molfettesi erano di due tipi: quelle di lusso, dette “re sìegge de fenecchiétte” il cui fondo era coperto da fibre di bambù e “re sìegge de pagghie” il cui fondo era coperto da paglia. Le prime arredavano la camera da letto, le seconde erano normalmente in cucina. Quando l’impagliatura di queste ultime cominciava a deteriorarsi per il continuo utilizzo, fino a determinare spesso la rottura dei giunchi, non si usava buttarle via ma si facevano riparare da un artigiano ambulante, dietro corresponsione di un modesto compenso per la riparazione effettuata. Costui veniva chiamato “Conzasiegge”, voce composta da “conza” = acconciare, riparare, e “sìegge” = sedie.
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Il riparatore di sedie (conzasiegge)
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Il riparatore di sedie o impagliatore era un uomo che si guadagnava il pane applicando l’arte tramandata di padre in figlio. Girava per tutto il paese (attùrne la tèrre) a piedi, con la bisaccia a tracolla, piena di giunchi di diversi colori e con relativi attrezzi.
Quando era chiamato per la sistemazione del fondo sedia, gettava per terra il suo fardello di arnesi, sedeva su un giaciglio da lui improvvisato e subito cominciava a lavorare, con calma e in silenzio. Se era di buon umore, lavorava canticchiando vecchie canzoni come: “vecchio scarpone” di Gino Latilla; “la strada nel bosco “ di Narciso Parisi; “rose e gardenie” di Vittoria Mongardi; “viale d’autunno” di Carla Boni; “lungo il viale” di Natalino Otto; “mamme” di Giorgio Consolini; “o sole mio”di Claudio Villa, e altre.
Il lavoro di impagliatura richiedeva una buona conoscenza dell’arte: prendeva una treccia di paglia, l’avvolgeva su una estremità della traversa posteriore del telaio del sedile, riuniva i due capi torcendoli insieme, conduceva questo cordone sulla corrispondente traversa anteriore, poi lo riportava all’inizio della traversa posteriore. Un secondo cordone di paglia, fissato come il primo ma su un altro punto, seguiva lo stesso tragitto, fino ad arrivare al centro del sedile. A questo punto non gli rimaneva che intrecciare, tirare, annodare e tagliare.
Terminato il lavoro, chiamava la padrona di casa dicendo: “La patròene, la ségge é prònde!. (Padrona, la sedia è pronta!) E la padrona: quanto ti devo dare? “Pàgheme a piacèiere de segneràie!” (Pagami a piacere di vostra signoria!). Prendeva il modico compenso che conservava in un lògoro portafoglio, chiedeva un po’ d’acqua durante la calura estiva per dissetarsi, raccoglieva gli avanzi della sua roba e riprendeva il suo cammino gridando: “Oh conzasiegge!…Oh conzasiegge!…”, consapevole che il suo mestiere era duro e non poteva mollare. “Labor omnia vincit improbus” (Una fatica tenace supera tutte le difficoltà), dice Virgilio (Georgiche, I, 144).
Era l’anno 1857, ricordato nella storia sismica per un terribile terremoto avvertito il 16 dicembre che devastò un’ampia parte della Basilicata e della Campania provocando oltre 11.000 morti e distruggendo più di 6.000 case. Il sisma, con epicentro Montemurro e con una intensità oggi stimata di magnitudo 6,9 della scala Richter (IX grado Mercalli), si scatenò con due intense scosse a distanza di pochi secondi l'una dall'altra, alle ore 22:15.
In quel periodo il Maestro Vincenzo Valente (1830-1908), padre della marcia funebre molfettese, come lo definì Francesco Peruzzi, aveva terminato di comporre una marcia intitolandola “Pianto antico”. Il titolo dato alla marcia richiama quello dell’omonima poesia scritta nel 1871 da Giosuè Carducci (“L’albero a cui tendevi / la pargoletta mano, / il verde melograno / da’ bei vermigli fior…”), in cui il poeta esprime il profondo dolore per il figlioletto Dante, morto per un accesso improvviso e inaspettato di febbre, all’età di tre anni. L’aggettivo “antico” del titolo sta a significare che lo strazio del poeta è lo stesso provato dagli uomini d’ogni tempo di fronte alla morte.
La marcia, però, non soddisfava in pieno le aspettative del Maestro Valente, il quale viveva con il dubbio di non aver saputo dare alla sua composizione un degno finale. Ad un tratto, udì nella strada (in quel tempo abitava in via Amente n. 26) il grido del riparatore di sedie. Il Maestro ne fu colpito e tradusse musicalmente quel richiamo aggiungendolo al “Pianto antico”, così la sua primitiva composizione funebre la chiamò “Conzasiegge”.
La marcia è la più antica tra quelle scritte dai compositori molfettesi. Si esegue all’uscita di Cristo Morto dalla chiesa di Santo Stefano, durante la processione del venerdì santo.
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Uscita di Cristo Morto: ore 4,00
(foto Tommaso Messina)
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Nel “Conzasiegge” sono riassunti tutti i caratteri delle opere del Maestro e cioè: estrema cantabilità, semplice struttura armonica e simpatica versatilità.
“U Conzasiegge” veniva suonato anche in particolari funerali. Infatti nei tempi passati, a Molfetta, quando la morte rapiva nel fiore degli anni un congiunto, i famigliari manifestavano il loro cordoglio spargendo lungo il percorso funebre fiori “plenis manibus”, alla cadenza struggente della marcia del Valente. Sicchè al dolore per la morte del congiunto si univa il pathos creato dall’ascolto della composizione. Questa lugubre parata funebre aveva la sua “ratio” nelle proverbiali parole di Plutarco (scrittore greco di Cheronèa): “la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto”.
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Spartito della marcia funebre "Conzasiegge"
(per gentile concessione del prof. Mauro Spagnoletti)
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* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.

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