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“Tramonto Tragico” di tre musicanti molfettesi

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Nel repertorio delle marce funebri della tradizione molfettese vi è una marcia abbastanza conosciuta che porta il titolo di “Tramonto Tragico”. La marcia, spesso eseguita nei tratti delle processioni del venerdì di passione e della settimana santa, fu composta dal Maestro Angelo Inglese (1918-1990) nel 1945, anno in cui una sciagura stradale colpì il complesso bandistico “Città di Molfetta”, da lui diretto, in viaggio verso Manfredonia per i festeggiamenti in onore della Madonna del Carmine (e non al ritorno da Manfredonia, come erroneamente è stato scritto).
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La dinamica di quell’incidente può essere così riassunta. Era il 14 luglio 1945, di sabato: la guerra era finita da poco e dopo cinque anni di belligeranza, si cercava di tornare ad una vita normale. I musicanti della banda si erano dati appuntamento per le ore 16.00 presso la loro sede in via Ricasoli per essere prelevati, con i rispettivi strumenti musicali, da due camion prestati dal comando inglese di occupazione agli organizzatori della festa di Manfredonia. La banda doveva esibirsi in serata, nella piazza antistante la chiesa del Carmine in Corso Manfredi, con l’esecuzione di tre celebri brani lirici: Guglielmo Tell, La Forza del destino e la Traviata. Dei due camion, uno era dotato di doppie ruote posteriori, l’altro era normale. Su entrambi avevano preso posto una cinquantina di musicanti con i rispettivi strumenti. I due camion partirono verso le ore 17.00 da Molfetta alla volta di Manfredonia.
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Il Signor Fiorentini Raffaele, all’epoca componente di quella banda (suonatore di tromba in mi bemolle), oggi ottantenne, così rievoca i momenti drammatici della tragedia: « Al calar del sole , ad una distanza di circa tre chilometri da Manfredonia, coloro che erano seduti sul camion normale, avvertirono un cedimento della ruota destra posteriore. Tutto ad un tratto l’automezzo si inclinò paurosamente sul fianco destro e si capovolse in un campo agricolo adiacente. L’urlo dei musicanti fu unanime a quella improvvisa tragedia. La morte rapì la vita di tre musicanti: Mauro Altizio (clarinetto-quartino) di anni 11, Giuseppe Breglia (clarinetto) di anni 40, Sebastiano Rotondella (flauto) di anni 36.
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Ci furono altresì diversi feriti che furono portati, con mezzi di fortuna, al più vicino ospedale, mentre altri componenti riportarono un forte shock traumatico. L’autista con il Maestro Inglese, seduto al suo fianco nella cabina di guida, rimasero illesi.
Io seduto a fianco di mio padre, Nicola Fiorentini, timpanista, ero su quel camion. Avevo quattordici anni. Ne uscii indenne come pochi altri e cercai mio padre, sanguinante. Tutto attorno sembrava un campo di battaglia. Sembravano tutti morti. In poco tempo arrivarono i soccorsi. Una gru sollevò il camion ribaltato ma per i tre malcapitati non ci fu niente da fare. Erano morti schiacciati dal peso del motore che si era inclinato nella cunetta. Ovviamente le festa non si fece più; Manfredonia si ammantò a lutto. La banda non si sciolse e continuò i suoi concerti l’anno successivo; volle tornare ancora a Manfredonia per suonare in ricordo dei colleghi morti nella tragedia. Al braccio ogni componente portava una fascia nera in segno di lutto».
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I funerali delle tre vittime fu celebrato il lunedì successivo (16 luglio) in Cattedrale, dal Vescovo mons. Achille Salvucci, il quale chiuse la sua omelia con queste parole: «Noi tutti ci stringiamo a voi familiari in questa terribile disgrazia. Purtroppo chi scompare improvvisamente ci lascia sgomenti e prostrati nel dolore. Coraggio, miei cari; la speranza che le anime di questi tre sfortunati concittadini siano tra le braccia di Dio, vi dia conforto in questo doloroso momento. Il nostro cuore è con voi». Alla cerimonia funebre era presente una folla enorme che voleva rendere l’ultimo omaggio ai tre bandisti.
Sapere chi fossero e cosa facessero in vita non è cosa facile. Sebastiano Rotondella aveva atri due fratelli che suonavano nella stessa banda: Corrado (pistonino) che rimase illeso e Giuseppe (sassofono) che riportò una frattura al braccio. Mauro Altizio era accompagnato dal padre, Pasquale, pure lui musicante (trombone) nella banda.
Giuseppe Breglia era un uomo perseguitato dall’avversa sorte, come ci racconta una sua nipote, Signora Angela Ortiz, molfettese residente a Bari (vedi “Molfetta Nostra” di ottobre-novembre 2002):
«Breglia Giuseppe era rimasto orfano dei propri genitori molto presto. A 24 anni sposò una bella e brava giovinetta che purtroppo morì con una broncopolmonite a soli 22 anni, dopo due anni di matrimonio, lasciando una bimba di soli otto mesi. Dopo dieci anni di vedovanza mio zio si risposò ma, dopo due anni, gli morì di tubercolosi la seconda moglie, lasciandogli un figlio. Dopo pochi anni si risposò per la terza volta, ma questa volta ad andarsene fu lui in quel tragico 14 luglio 1945. Lasciava un’altra bambina che rimase con la terza moglie, la quale portava in grembo un’altra creatura destinata a non conoscere mai il padre. Era un bravo ebanista, amava molto la musica, suonava nella banda il primo clarino. Lavorava in un laboratorio di ebanisteria del maestro Corrado Nappi. Quel laboratorio occupava una piccola ala di quello che era una volta il palazzo Cappelluti, situato in un vicolo senza uscita a destra del grande androne del palazzo. A piano terra di quel palazzo lo scultore Giulio Cozzoli lavorava e scolpiva i suoi capolavori. Molte volte l’artista si recava nel laboratorio di ebanisteria, che era a pochissimi passi dal suo studio, per scegliere tra gli operai qualche giovane che potesse fargli da modello nelle sue sculture. Mio zio diceva spesso: “Quel soldato del Monumento ai Caduti sono io”, “Gesù Morto in grembo alla Madonna sono io”. Ero piccola e non capivo. Ho capito molto tempo dopo che quella tristezza che si vede nel soldato del Monumento ai Caduti, quel dolore scolpito sul volto della Vergine che regge sulle sue ginocchia il corpo di Cristo Morto, lo avevano sempre accompagnato nella sua intensa e breve vita».
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La marcia funebre “Tramonto Tragico” fu eseguita per la prima volta nelle processioni della settimana santa del 1946. Un esame del componimento funebre, contrassegnato nei libretti dell’Arciconfraternita della Morte con il numero 6, mette in evidenza come dalle prime due battute traspare un netto realismo, la simulazione del movimento del mezzo che trasportava la banda, compito affidato e svolto dai flicorni contrabbassi prima e bassi poi, rafforzati da un ostinato cromatismo affidato agli strumenti (piccolo in La bemolle, piccolo in Mi bemolle ecc.) che accentuano la complessa idea della tragedia. La composizione si evolve con il trio in La bemolle maggiore, avvincente e originale, e il finale, nel quale viene ripreso il tema iniziale che viene esaltato da un tragico “fortissimo”.
Come concludere questo articolo? Tragedie come questa non vanno dimenticate e ci insegnano a essere pronti e preparati a tutto, anche alla morte, con cuore saldo e sicura fede.
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* Testo e foto a cura del prof. Cosmo Tridente.

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